lunedì 11 gennaio 2016

L'alveare di Ranakpur

Il nostro bus-rottame-di-linea planava sui distretti del Rajasthan. Il Grande Deserto Indiano spandeva in granuli di sabbia fin sulla strada, l'aria fenduta rifulgeva d'arenaria e la città dorata, Jaisalmer, sbiadiva nel polverio del retrovisore. Il nostro bus-rottame-di-linea era come un uccello di lamiera. O come una voliera, e tra le sue ferrose piume aleggiava una coppia di pennuti simili a pettirosso: il corrimano per lisciare le penne, la spalliera per riposare, il portellino per lanciarsi in volo. 

La terra ha in serbo meraviglie che solo il viaggio può rinvenire. Le tonalità d'ocra volgevano al rossiccio, le piante irrobustivano, il terreno rassodava; era un graduale diradarsi del deserto nella campagna. Non più acacie e arbusti spinosi ma campi messi a frutto. La verzura era in macchie ora più estese ora più verdi, e le piante, al correr dello spazio, mutavano di foggia, di chioma, di ceppo. I pennuti lasciarono la corriera per le colture, e con loro s'involarono due canuti contadini, secchi secchi e neri di sole, con grandi baffi e sbuffi di pelo dalle orecchie, turbanti rossi e scintillanti pendenti. 

Il nostro bus-rottame-di-linea crocidava e strombazzava di gran carriera. Nell'ampio abitacolo prese posto un drappello di soldati: giovani in congedo, freschi di taglio, con scarpe e bastone lucidi; la divisa color cachi era, alle pendici del forte Mehrangarh, la sola eco cromatica delle dune di Thar. La campagna di sorgo e di miglio germinava a perdita d'occhio: le donne trasportavano grossi covoni sul cercine in capo e gli uomini trascinavano le canne per l'irrigazione. Le case erano di fango e bambù: pagnottelle di letame di mucca essiccavano sui tetti per i fuochi della cucina, misere mobilia erano disposte nell'atrio e tutto stava al limitare della strada statale. 

C'erano ruote di pavone e bargigli di gallo, barbe di capra e corna di bufalo. Un ciuco con due zampe legate cercava di divincolarsi, ed era una corsa tremenda e indomabile. Il bus prese a salire. Gli alberi infoltivano, il sottobosco inerpicava su tonde colline che, per nome e per guisa (i monti Aravalli eran di lì a poco), ricordavano i colli della Marmilla sarda, o i seni torniti delle fanciulle scolpite sui templi induisti. Qui, in una valle appartata ai piedi delle alture, sorse Ranakpur, un complesso templare Jain del quindicesimo secolo, e qui, nel suo piccolo contado di alloggi stile coloniale, passammo la notte. 


Chaumukha è un massiccio santuario di marmo e intaglio. Conta decine di cupole a picco di montagna, le shikhara, e quasi millecinquecento colonne miniate, in altrettanti modi, con figure umane e divine, disegni geometrici e ricami floreali. Il tempio s'eleva su tre livelli, fregiati con cicli di antiche storie gianiste, e poggia su una pianta cruciforme, le cui traverse s'incontrano in corrispondenza di una cupola a fior di loto e conducono a quattro sontuosi ingressi, allineati ai punti cardinali. Chaumukha significa “dalle quattro aperture” e ciascuno di noi quattro amici ne varcò una distinta.

A Matteo toccò in sorte il temibile cobra dai mille cappucci, Alessandro incocciò nel muso di un elefante massello, che attorcigliava la proboscide ad una Kalasha; Andrea incontrò la folta schiera dei cavalli di Ganesha, ed io vidi l'alveare a mezza luna. Non era un intaglio di marmo, ma un immenso nido d'api di colore scuro e brillante, come una caramella al rabarbaro; pendeva dal parapetto merlato, tra il primo e il secondo piano del santuario, ed era così affine ai motivi del tempio da sembrare un elemento architettonico, un architrave zoologico. 

La superficie dell'alveare s'increspava al battito d'ali delle api, e improvvise eruzioni freatiche smuovevano la crosta del nido, rinnovando così la formazione degli imenotteri. Era una diavoleria ipnotica, un'entità della natura confusa ai principi geometrici dell'uomo. Chaumukha era un bugno per uomini e un tempio per api: e così forse è l'India intera, terra di bestie, uomini e divinità per metà uomini e per metà bestie.

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