lunedì 14 dicembre 2015

Vacca nera

- Tashkent Palace Hotel. 
- Yes sir.
Il taxi alzava polvere notturna di New Delhi; l'aria era una caligine grigio lucente che presto avremmo imparato essere una costante del caldo inverno indiano. L'autista, un ragazzino, indossava una camicia ocra a quadri sporca e aveva occhi grandi venati di rosso.
- Da che paese venite?
- Italia.
- Italia! - scandendo forte in italiano -, come Sonia Gandhi. Prima volta in India?
- Sì.
- Benvenuti, ma mi raccomando, fate attenzione, siamo in pieno festival e di notte c'è un gran parapiglia, meglio non farsi sorprendere in giro.
L'ammonimento non sortì granché impressione. Benché la foschia rendesse il tragitto ignoto e sospetto, presto saremmo arrivati al Tashkent. 

La grande arteria che imboccammo all'Indira Gandhi Airport si era fatta una strada di media percorrenza e ora una strada più piccola, senz'anima viva che l'attraversasse. La bruma velò sino a pochi metri di distanza uno sbarramento di transenne gialle della “Delhi Police”. L'auto si arrestò, e nell'umido pulviscolo prese forma un uomo munito di torcia. Non era un poliziotto. Parlava con l'autista guardandoci di tanto in tanto. 
- Dice che non si può passare da qui. 
- Come mai?
- È per via del festival sir. Ci sono scontri.
- Procediamo da un'altra via allora.
- Il quartiere è chiuso al transito sir.
- Ma non può essere! Pahar Ganj è immenso, ci sarà un altro accesso.
- No sir, ma non vi preoccupate, andiamo a un ufficio del turismo qui vicino. 
Il ragazzo seguitava ad accampare scuse e in men che non si dica ci aveva portato dove voleva.

Animal India

Non sembrava un ufficio turistico, sebbene una grande insegna ne attestasse l'autenticità, Tourist Office. Ci chiesero il nome dell'hotel, inscenarono una chiamata, ribadirono l'impossibilità a raggiungerlo e infine ci proposero una sistemazione alternativa. Attorno a noi era oramai uno stringente capannello di indiani ed era chiaro che volessero raggirarci. Andrea - il mio compagno di viaggio, altri due ne avremmo incontrati l'indomani sera - telefonò al Tashkent e il receptionist gli consigliò di chiamare la polizia, numero 100. Chiesi all'autista di riportarci in aeroporto, saremmo ripartiti da lì, ma disse di no, il suo turno di lavoro finiva con la nostra corsa. Pagammo il pattuito al ragazzo e zaini in spalle affrettammo il passo verso non sapevamo dove. Cercarono di trattenerci ma nessuno sembrava intenzionato a inseguirci.

La foschia ci sottrasse ai truffaldini figuri per condurci al cospetto di un uomo che quasi nudo, tenendosi le spalle con le braccia, una barba lunga nera e una nenia tra i denti, attraversava la strada in obliquo. Guardavo dove andava, ancora nella bruma, e da dove veniva, altra bruma. Pareva non ci fosse nulla a bordo strada, ma con l'animo un po' più saldo riuscì a distinguere il buio dal buio. La strada era ricovero di corpi dormienti. Uno accanto all'altro, avvolti in striminzite coperte. C'era una vacca, era nerissima, mi sembrò enorme. Alcuni colpi di tosse, un muggito sordo e il ronzare di un Apecar gialloverde che si apprestò a noi per l'ultima volata della notte o la prima del mattino.

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