martedì 22 dicembre 2015

Hanuman

Era una mattina di smog e polverio. Il sole effondeva un pallido bagliore, di quelli che placano il tempo e piegano gli animi alla malinconia. La vera luce erano le mercanzie, la vita attorno al commercio, il bazar della Old Delhi. Rigattieri, orefici, robivecchi, ambulanti e cucinieri. Gli odori spargevano in strada e l'andirivieni ne incanalava gli effluvi, così da menar ad ogni naso un distinto olezzo. Era un incessante vociare, la calca premeva palmo a palmo, e ovunque cadesse lo sguardo mulinava un gran parapiglia. Pareva Blade Runner o il bar intergalattico di Guerre Stellari o una messinscena Steampunk.

Tiranti, cavi e smunte insegne rampicavano sino ai piani alti degli edifici, per incurvarsi sulla giungla urbana come cupe volte di verzura. Innanzi a un tempio induista un uomo dall'esile corporatura era chino sulla vasca delle abluzioni dei piedi e ne beveva l'acqua; una coppia di Sikh in eleganti abito e turbante fendeva la folla impugnando lunghe lance a punta di losanga; poco oltre un'anziana in sari giallo precedeva di pochi passi una donna musulmana in burqa; un mendicante senza gambe mi toccava il ginocchio perché lasciassi cadere qualche rupia sul palmo della mano aperta.

Poco più avanti un vetturino a riposo giocava sullo smartphone, mentre i colleghi facevano crocchio per rubarsi il cliente; una pietra argentata che affiorava di poco dal terreno era attorniata da donne in preghiera; un pover'uomo, il cui giaciglio della notte era il posto di lavoro, spremeva canne da zucchero con un macchinario a pedale per filtrane il succo bianco; molti sputavano rosso, insozzando le strade in modo rivoltante: masticavano betel, una foglia come d'edera, dal gusto amarognolo, che si mischia a noce d'areca e a calce, e che aumenta la salivazione tanto da impedirgli d'aprir bocca.

Un nugolo di bambini, neri di sporcizia, chiedeva un casco di banane a un venditore che povero diavolo li scansava; sparute mucche ruminavano scatole di cartone e una piccola muta di cani latrava come lupi; più in là un barbiere tra le mosche, e in terra, su un panno sporco, gli attrezzi del mestiere di un dentista a cui mai avrei affidato le mie carie; dirimpetto un aguzzino bucava l'asfalto per infilare due alti pali, estremità di una corda su cui una bambina avrebbe danzato in equilibrio; e chi irrorava d'olio un pentolone nero, chi sgranava il carbone per attizzare il Tandoori, chi impastava Chapati o Samosa o dolci di capra. Era una quotidianità stonata, un coacervo di epoche, costumi e tecnologie.

Divinità Hindu

Sul portale ligneo di un altare votivo incontrai per la prima volta la potente rappresentazione di Hanuman, divinità Hindu. Metà uomo, metà scimmia. Non è un dio idealizzato come il nostro, è quel che appare, una grandezza a cui non riuscivo a dar misura. La religione permea il corpo sociale, stringe a sé il creato, connota l'agire indiano e in quel bazar di Old Delhi ebbi l'impressione che la piena comprensione delle cose mi fosse preclusa.

Il pomeriggio andammo in visita al mausoleo di Hazrat Nizamuddin Auliya, santo sufi caro ai musulmani della capitale. Appena oltre una modesta soglia ad arco ogivale principiava un dedalo di corridoi in marmo bianco che attraversammo scalzi. Ad ogni snodo erano storpi e mendicanti; chiedevano l'elemosina, desinavano, dormivano sulla dura e liscia pietra. Il santuario era al centro di questo meandro medioevale: le donne cantavano in adorazione, fuori dalla Dargah, sedute all'ombra di un maestoso giro di arcate miniate d'oro, e gli uomini, dai bianchi copricapi - chi turbante, chi shashia, chi bandana -, pregavano attorno alla tomba. C'erano fiori, pigmenti e cordoncini votivi di cotone rosso. Eravamo sopraffatti; mai realtà più lontana, era uno di quei luoghi che la letteratura definirebbe “ucronia”: di una coerenza ipotetica, simulata e non realistica.

La religione esprimeva ancora quel per cui io non avevo parole e Delhi mi sembrava uno strano innesto di mondi passati ed eterni, le cui lacere suture architettoniche correvano lungo le principali arterie urbane. Sulla Copernicus Marg, imboccata poco prima alla volta di Nizamuddin, il prospetto stingeva di ricordi coloniali, di esotiche venture britanniche. Matteo, uno dei quattro della compagnia, prese a fischiettare la marcia dei granatieri inglesi. Era Barry Lyndon, era il controcanto di questa nostra avventura a lume indiano.

Leggi qui l'episodio precedente e qui il successivo.